0:00
/
0:00
Trascrizione

A proposito di... Elena Basso

Decima intervista in formato "XL" di questa seconda stagione del podcast, in versione video con pochi tagli, come sempre in esclusiva per gli iscritti di questa newsletter. E alcune altre cose

Con un po’ (ehm) di ritardo rispetto a quanto avrei desiderano torno nelle vostre caselle email per presentarvi un'intervista davvero speciale con Elena Basso, una giornalista d'inchiesta che vive in Sudamerica dove è impegnata a raccontare storie importanti, spesso dimenticate o semplicemente ignorate da chi vive da questa parte del mondo, diventando una voce autorevole sui temi della violazione dei diritti umani in America Latina.

Durante la nostra chiacchierata, Elena ci porta nel cuore di alcune delle sue inchieste, condividendo esperienze toccanti e rivelando le sfide di lavorare in contesti complessi e spesso pericolosi. Dai racconti delle madres che non smettono mai di lottare per la giustizia, alle inchieste che hanno saputo cambiare il corso della storia per intere comunità, da questa chiacchierata emerge la gigantesca passione per una professione affascinante e dolorosa: il giornalismo che fa la differenza.

Sono sicuro che i racconti di Elena vi lasceranno senza parole. Per me sono state stimolo per riflettere su quanto sia importante dare voce a chi spesso non ne ha.

E ora qualche link. A partire dai podcast di Elena che abbiamo citato:

Mentre per quanto riguarda l’inchiesta/graphic novel con i disegni di Mabel Morri, eccola qui: Cile. Da Allende alla nuova costituzione: quanto costa fare una rivoluzione?

Tra le tante altre cose citate vi lascio anche il link al podcast El Hilo perché merita veramente tanto (è in spagnolo). Spoiler: a questo progetto, a Radio Ambulante e a tutto il resto dedicherò una puntata speciale…


“Dare voce a chi non ha una voce” è una frase ancora valida?

Chiederselo dopo avere ascoltato la voce di Elena Basso la risposta ci sembra davvero ovvia: certo che si. Il concetto di "dare voce a chi non ha voce" è stato per decenni un pilastro del giornalismo. Tuttavia, con la crisi dei giornali (semplifico) da una parte e la diffusione di internet e delle piattaforme (ri-semplifico) dall’altra, questa grande basilare missione è stata messa in discussione.

Oggi lo sappiamo bene: chiunque disponga di una connessione internet può esprimere opinioni e condividere la propria storia con un pubblico globale. In questo contesto è il ruolo del giornalista a cambiare: non è più solo colui che dà voce a chi è marginalizzato, ma anche colui che filtra, verifica e amplifica le storie più importanti.

Riflettendo su questo cambiamento, possiamo chiederci: il giornalismo ha ancora il compito di "dare voce a chi non ha voce" o piuttosto deve concentrarsi sull'amplificare quelle voci che rischiano di essere sommerse nel grande rumore di fondo? La risposta non è semplice come appare e richiede una comprensione profonda delle dinamiche attuali del mondo dell'informazione.

In passato, i giornalisti avevano un ruolo quasi esclusivo nel determinare quali storie meritassero di essere raccontate e con questo una grande responsabilità.

Oggi tutti quelli che a diverso titolo fanno i giornali devono confrontarsi con un ecosistema informativo in cui le notizie possono essere prodotte e distribuite da chiunque. E molto più rapidamente che in passato. Nel bene e nel male. Perché di questa enorme partita i protagonisti non sono sono soltanto i giornalisti col tesserino, ma lo sono - e aggiungo: con pari dignità - tutti quelli che maneggiano le notizie e che operano con l’informazione in ogni luogo in cui si raggruppa una qualsiasi audience, non importa quanto piccola o grande sia.

Questo cambia radicalmente il rapporto tra giornalisti e pubblico. Che differenza c’è dopotutto, tra un giornalista di un grande quotidiano (per come lo intendiamo in termini novecenteschi) e un creator che quotidianamente informa la propria community attraverso le live su Twitch o con video verticali su Tik Tok? Certo, da una parte c’è l’Ordine, c’è la formazione obbligatoria, c’è un percorso per accedere alla professione (di cui potremmo discutere a lungo), ci sono ottime scuole, eccetera eccetera. Dall’altra c’è qualcosa che ancora dobbiamo ancora capire come chiamare e come trattare. Si può essere scettici, ma penso che la stella polare del nostro giudizio debba sempre orientarci verso la qualità. Dopotutto: io preferisco buoni creators a cattivi giornalisti.

Ma dove si traccia la linea di confine? Quali sono, secondo voi, le metriche che rendono “buono” o “cattivo” il lavoro di un giornalista o di un creator? Dove posizionare il nostro giudizio?

Il rischio, per molti, è che senza un intervento professionale competente, storie importanti possano passare inosservate nel grande rumore di fondo o, peggio ancora, essere distorte e rilanciate perseguendo secondi fini. Distorsioni, peraltro, di cui è la stampa più tradizionale ad essere spesso colpevole. Per citare soltanto uno degli ultimi casi che mi ha causato una certa acidità di stomaco, penso alla non-notizia della coppia di tatuatori (tatuati) che a causa del proprio aspetto fisico non riescono a trovare una casa da affittare.

Una brutta abitudine di molte testate giornalistiche italiane è, infatti, quella di trasformare fatti insignificanti prelevati da qualche piattaforma social in notizie allarmistiche e scandalose. In questo caso si tratta di una coppia che ha pubblicato un annuncio su una pagina Facebook per cercare un appartamento a Torino, corredandolo con una foto personale. Come spesso accade sui social (che, ripetiamolo insieme, non sono il male assoluto ma sono soltanto lo specchio della società a cui abbiamo dato forma) hanno ricevuto commenti molto offensivi.

L’ennesima dimostrazione della stupidità umana strumentalizzata da testate importanti per creare una falsa narrazione di razzismo nelle locazioni immobiliari. Non c’è stato alcun rifiuto da parte di proprietari, non c’è stato nessun contratto stracciato, nessuno ha negato loro un affitto. Tuttavia, gli articoli che hanno distorto la verità in questo modo hanno attirato ancora più attenzione sui social, generando clic, polemiche inutili e un ulteriore fiume di beceri commenti.

La lezione? La scelta di piegare la verità per ottenere visibilità paga. E a farne le spese in questo caso è la credibilità giornalistica, ridotta a cercare notizie dove non ce ne sono.

Per tornare al tema iniziale, quindi: da una parte persone che non hanno una voce e dall’altra storie che non esistono e che pertanto una voce non dovrebbero averla. Certo, i giornali devono fare i conti con le aspettative di un pubblico che non solo vuole essere informato, ma anche emotivamente coinvolto. Il rischio, che pesa maggiormente per le testate più popolari, è quello di ritrovarsi ad inseguire la pancia del Paese, di urlare un pochino più forte della voce che sta accanto, di prendersi qualche licenza di troppo pur di dare alla gente le storie che questa desidera ascoltare. Conclusioni comprese, anche se del tutto inventate. Ci sarà mai soluzione?

La sfida principale non è solo saper individuare chi merita di avere una voce, ma anche discernere quali storie sono realmente significative. E fare in modo che le voci autentiche e rilevanti non vengano sommerse dal rumore e dalle non-notizie.

E secondo voi, quali valori e criteri dovrebbero guidare la scelta delle storie da raccontare? Dov’è la nostra stella polare?


Iscriviti alla newsletter | Le puntate precedenti | Il podcast su Spotify

Discussione su questo video