Una riflessione sul linguaggio e sul giornalismo
E anche un augurio. Per le nuove interviste, invece, ci ritroveremo subito dopo le feste
Camminando per Madrid, al Espacio Fundación Telefónica, mi sono fermato davanti a un'opera di Jaume Plensa che mi ha colpito e fatto pensare: cortina de palabras, si chiama. Letteralmente: tenda di parole. Le lettere, sospese e illuminate, formano un muro di parole che sembrano volare nell'aria mescolandosi con le ombre. Un gioco di luci e riflessi che, con delicatezza, ci mostra la fragilità del linguaggio: capace di essere sia un ponte che avvicina, sia una barriera che allontana. Ho pensato a quanto le parole siano potenti eppure vulnerabili e a come, nel mondo, oggi, siano sempre più manipolate, distorte o strumentalizzate.
Eppure, questa banale riflessione sul linguaggio non mi ha fatto solo pensare all'arte ma anche al giornalismo. Quel tipo di giornalismo che, come le lettere fluttuanti di Plensa, dovrebbe essere trasparente, puro, capace di rivelare la realtà senza nasconderla. Ma è davvero così? Non posso fare a meno di pensare a quanto, oggi, sia difficile praticare il giornalismo libero. La vicenda di Cecilia Sala, arrestata in Iran il 19 dicembre, mi tormenta come un ammonimento. Sala, che stava cercando di raccontare ciò che accade in un paese dove la verità è soffocata dalla repressione, è per me solo l’ultimo simbolo di una battaglia più grande che mi ricorda storie dolorose che non voglio citare qui, oggi, ma di cui abbiamo parlato molto nel corso di diverse puntate del podcast. Una storia, quella di Cecilia, che è anche un monito: il giornalismo, per essere libero, deve spesso fare i conti con il potere, con la censura, con il rischio di sacrificare la propria libertà per raccontare quella degli altri.
Non posso fare a meno di pensare a tutti quei giornalisti che ogni giorno (ogni giorno!) rischiano la vita solo per esercitare il loro diritto a informare. Non solo quelli che operano nelle zone di guerra, ma anche quelli che si trovano a sfidare regimi autoritari o aree particolarmente pericolose in cui la verità si paga con la vita. Questa è una realtà che non possiamo ignorare. Inorridisco davanti alla becera ignoranza di commenti come “bè se l’è cercata” o “se stava a casa non le succedeva niente” e decine di altre schifezze del genere. Ne sono morti 104 quest’anno, di cui 55 a Gaza. A questi numeri vanno aggiunte le storie di violenza, di intimidazioni, di prigionia: è qui che si cela il vero volto della repressione della libertà (e del giornalismo).
E allora mi chiedo: cosa significa essere un giornalista oggi? È ancora possibile raccontare la verità senza paura, senza compromessi? Le parole, come nella rappresentazione di Plensa, sono potenti, ma sono anche vulnerabili. E quando quelle parole vengono usate per informare, per raccontare, per svelare la realtà, diventano il mezzo attraverso il quale possiamo cercare di dare un senso a un mondo sempre più complesso e frammentato. Ma se la verità è minacciata, se il linguaggio viene distorto, se la libertà di espressione viene soffocata, cosa rimane del giornalismo?
Mi aiuta a rispondere A.G. Sulzberger, presidente del New York Times, in un articolo di qualche tempo fa, uno di quelli che ti fanno vibrare qualcosa dentro e che tieni da parte che sai che prima o dopo ti sarà utile. Una riflessione su quanto sia cruciale, oggi più che mai, mantenere l'indipendenza giornalistica. Un'indipendenza che non significa solo non piegarsi alle pressioni politiche o economiche, ma anche avere il coraggio di seguire i fatti, dove essi portano, senza farsi intimidire da chi vorrebbe piegare la realtà a proprio favore. Il giornalismo, nel suo valore più profondo, è un atto di coraggio: raccontare ciò che si vede, anche quando non è conveniente, anche quando il potere cerca di soffocare la verità.
In questo 2025 che si avvicina, mi auguro di poter vedere un ritorno alla fiducia nel giornalismo, quella fiducia che ci permette di credere che la verità non sia mai solo una parte, ma il tutto di una narrazione che, pur nelle sue contraddizioni, ci aiuta a capire il mondo. Non è solo una speranza per il giornalismo, ma una necessità. La verità, anche quando è difficile da guardare in faccia, è ciò che ci permette di crescere, di capire, di andare avanti.
E così, con gli occhi ancora incantati da quelle lettere sospese nell’aria, mi convinco sempre più che il giornalismo indipendente sia un coraggioso atto di resistenza. Non un atto di sfida a chi ha il potere, ma un atto di rispetto verso la verità, verso il nostro diritto di sapere e di comprendere. Auguro, in fondo, che il giornalismo possa continuare a fare la sua parte, in modo libero e senza paura, per il 2025 e per gli anni a venire.